Se ti tirano le pietre…
L’altra domenica, nell’andare a piedi per celebrare la Messa a Kot de Fè, a circa tre quarti d’ora di cammino da Mar Rouge, ho avuto un
incontro davvero particolare. Ad un certo punto da una zona piena di vegetazione, dove si intravede a malapena un tetto di una abitazione, ecco che sbuca una signora di mezz’età che mi grida qualcosa per fermarmi. Il passaggio di un bianco su queste strade è tutt’ora un avvenimento e spesso senti urlare: “Mon blan, mon blan” , come a dire. “l’ho visto, è proprio un uomo bianco, correte a vedere, sta passando di qui…”. Chi riconosce che sei il padre della missione ormai non ci fa caso e ti saluta con il “bonjou mon Pè”. La signora di cui sto parlando ha qualche evidente problema di equilibrio mentale e non ha riconosciuto in me un padre della missione. Ha visto in me il bianco a cui chiedere con insistenza tutto il possibile. Gli ho detto gentilmente che non avevo niente da dare in quel momento (ed era vero), ma che poteva rivolgersi alla nostra parrocchia. Lei ha insistito tirando su tutta la maglietta per far vedere la pancia e tutto il resto, dicendo “Grangou, grangou”. Io ho ripetuto gentilmente l’invito e l’ho salutata.
Visto che avevo ripreso a camminare di buona lena, lei ha tentato di stare al mio passo poi ha desistito. Dopo qualche metro sento cadere dei sassi a qualche metro da me. Mi volto ed era lei che raccoglieva delle pietre e cercava di lanciarmele, ma non aveva certo una buona mira.
Allora, quasi per sdrammatizzare, anch’io prendo dei sassi e gli grido: “atansyon, mwen menm tou kapab voye woch, mwen bravo fe sa…ou vle joue avek mwen ?”. Anch’io sono bravo a tirare i sassi, vogliamo giocare? Sulle prime è rimasta bloccata e muta difronte alla mia reazione, poi ridendo e urlando qualcosa è rientrata verso casa. Dicono che spesso fa così con i bianchi che passano. Speriamo non aggiusti la mira!
Mi sto chiedendo quando l’essere qui comincerà a diventare “graffiante”. Cioè, mi aspetto che quanto prima, la vita di queste persone cominci davvero a coinvolgere la mia, a toccarmi, a scuotermi, a ferirmi. Che succeda quello che il Papa ha auspicato: il pastore che puzza di pecora, che si graffia nell’andare a recuperare la pecorella caduta tra i rovi, che si carica sulle spalle quella zoppicante, che non si accontenta di far mangiare la prima erba secca che trova, ecc…
Ebbene, per grazia di Dio, sto entrando in questa nuova fase del mio essere qui. Lascio decisamente volentieri la veste di studente di kreyol e di osservatore.
Il fatto di essere rimasti io e don Mauro, in attesa di don Claudio, mi chiede di condividere sempre più in pienezza il lavoro pastorale.
La vita di questa gente ha cominciato a prendere la mia. Ora i volti non sono più tutti uguali, ora quei volti hanno sempre di più il loro nome e la loro storia.
Comincio a sentirmi responsabile del loro bene.
Così cresce in me il desiderio di offrire anche l’aiuto più concreto.
Tutto questo può essere “graffiante”, nel senso che se ti lasci coinvolgere, presto o tardi, è inevitabile arrivare a sentire i loro dolori, le loro privazioni e i loro problemi come se fossero tuoi e diventano anche i tuoi.
Mercoledì scorso ho potuto fare il mio primo giro degli ammalati accompagnato da Masel il responsabile laico della zona di Likonje, con due o tre persone della comunità. Un giro di quasi quattro ore, su è giù per collinette, su sentieri in mezzo alla vegetazione, tra le coltivazioni di mais e di fagioli. Ho visitato una decina di malati, alcuni hanno chiesto la confessione, diversi la comunione. Ho visto situazioni davvero toccanti, ho preso nota sul taccuino delle situazioni più bisognose per poi confrontarle con don Mauro e la lista della nostra Caritas. Con don Mauro ho deciso di cominciare ad utilizzare una parte dei soldi offerti dagli amici italiani in occasione della mia partenza, per cominciare a risolvere qualche problema, soprattutto in merito alle case. Qui a Mar Rouge si è fatto moltissimo e si sta facendo moltissimo per aiutare le famiglie più povere. Vorrei cominciare a contribuire anch’io. C’è ad esempio una mamma rimasta vedova, che ha una decina di bambini, dentro una casa dal tetto a lamiera ridotto ad un colabrodo.
Quando piove, e qui capita spesso, non immagino in quale punto della casa possano ripararsi e riparare le loro cose. Un’altra situazione è quella di una casa col tetto in paglia e con tutti i legni di sostegno ormai marci e le pareti che si disfano gradualmente. Dentro due locali piccoli ci dormono una decina di persone. La povertà però non ha impedito loro di far crescere dei bei fiori fuori casa, come per dire che quel poco che si ha è comunque un dono gradito e apprezzato e che una casa così conciata è pur sempre la propria casa.
Sono passati da noi Enrico e Chiara, i due operatori della Caritas Ambrosiana, che operano nella nostra diocesi di Port e Paix. Sono un’altra bella presenza della diocesi di Milano, sono arrivati come me e don Claudio ai primi di Marzo e hanno un servizio della durata di un anno. Cercano di favorire il sorgere delle Caritas parrocchiali in una rete sempre più collegata con il centro diocesano e la pastorale diocesana. Hanno anche il compito di facilitare e verificare la giusta realizzazione dei progetti che la nostra Caritas milanese ha in piedi in questa zona di Haiti.
E’ bello ritrovarsi, scambiarsi impressioni e esperienze, aiutarci a lavorare insieme, condividere le stesse linee nel aiutare gli haitiani a vivere la Carità e non solo a riceverla.
Avremo ancora tante occasioni per parlare di loro.